L. Lume, Il gioco della memoria: quarant'anni in Archivio

Si pubblica di seguito un estratto dell'articolo pubblicato in «Archivi per la storia». Rivista dell'Associazione nazionale archivistica italiana, XIV (2001), 1-2, pp. 89-117. Per leggere il testo integrale clicca qui.

Lucio Lume, Il gioco della memoria: quarant'anni in Archivio

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Il mio sbarco nelle Marche fu di poco posteriore all'entrata in vigore del citato decreto presidenziale del 1963, in parte tuttora vigente.  Questo provvedimento, che considero un mirabile esempio di legislazione, prevedeva fra l'altro l'istituzione di una Sovrintendenza archivistica in ogni regione, con la conseguente frammentazione delle troppo estese e inefficaci ripartizioni territoriali precedenti. La nuova legge fissava attentamente, pur se con qualche lacuna, la condizione giuridica degli archivi non statali e regolava l'esercizio della vigilanza da parte dello Stato. Metteva in tal modo in un rilievo maggiore questi archivi, considerati finalmente, dopo un lungo travaglio culturale, di pari valore rispetto a quelli statali. Il processo di superamento di vecchie concezioni che sottovalutavano l'interesse di buona parte degli archivi non statali, soprattutto di quelli moderni e contemporanei, era in effetti già in corso dall'immediato dopoguerra , sotto la spinta di correnti di pensiero, che cominciavano a penetrare sempre più profondamente nel nostro paese. Basti pensare all'influenza della scuola francese delle Annales o al reticolato di stampo eminentemente marxistico che andava man mano stendendosi come sottofondo a volte insospettabile della nostra cultura. Il decreto del 1963 ebbe il merito di cogliere il senso di questi mutamenti e di dare, per quanto allora possibile (l'Ente Regione non era stato ancora istituito e poco si parlava di decentramento amministrativo), una più moderna organizzazione ed un notevole impulso al superamento di artificiosi steccati in ambito culturale, recependo le istanze sempre più generalizzate per un discorso unitario, soprattutto dal punto di vista scientifico. Dopo qualche anno, l'istituzione delle Regioni, la progressiva valorizzazione delle nostre Sovrintendenze e l'alluvionale serie di mutamenti sociali, economici, culturali, tecnici, che hanno pressoché trasformato il nostro mondo, offrirono validi aiuti per risolvere  questo genere di problemi, ma quando io cominciai ad occuparmi di vigilanza il discorso era appena avviato.

Fui subito affascinato dallo straordinario patrimonio di archivi non statali che trovai nelle Marche e mi dedicai con entusiasmo a questo settore per me pressoché nuovo[1]. Fui presto del parere che il futuro degli Archivi sarebbe stato deciso con la immissione in circuito di tutto quell'enorme patrimonio di ricchezze documentarie che è affidato ad organismi esterni agli Archivi di Stato. La percezione della necessità di uscire dall'ambito dei soli Archivi di Stato perché ormai la partita andava giocata a tutto campo, la sensazione di una centralità sempre più evidente degli archivi non statali visti come parte di un corpo unitario comprendente anche il patrimonio documentario di pertinenza dello Stato: sono queste le idee che in quegli anni mi affascinavano, idee che hanno poi compiuto fino ad oggi un ben lungo cammino. Trascurai quindi un po' - devo confessarlo - la mia contemporanea funzione di direttore dell'Archivio di Stato di Ancona e svolsi soprattutto attività di vigilanza.

Devo precisare che nel concetto di vigilanza ho sempre istintivamente compreso la diretta esecuzione di un complesso di interventi, anche di schedatura e di riordinamento (spesso limitati per forza di cose al periodo napoleonico) che non erano in effetti previsti dalla legge. Ritenevo inutili le solite brevi visite ispettive o l’avvilente scambio di corrispondenza, quasi sempre ripetitiva: ero convinto che, così facendo, la Sovrintendenza fosse condannata a vegetare  tristemente, venendo meno a quei compiti propulsivi che a mio parere erano e sono suo naturale appannaggio. Presentai al Ministero un’argomentata relazione su questi temi ed avanzai le mie proposte:, che furono, contro ogni previsione, approvate. Pertanto io ed i miei colleghi dell’intera regione procedemmo in libertà senza porci ulteriori problemi e senza por mente ai sacrifici personali, con risultati – mi sia consentito dirlo – molto lusinghieri. Vedevamo venire alla luce e lentamente comporsi la completa rete archivistica di quella regione: archivi dei Comuni, di enti pubblici della più varia natura, di famiglie, di personaggi illustri, di imprese economiche, soprattutto di enti ecclesiastici. Sommando a questi gli archivi statali, ecco rappresentata in concreto l'unità di un patrimonio documentario, che testimoniava, ogni fonte per la sua parte, la complessa trama dei fatti storici di quelle terre.

In parallelo con la riscoperta del significato e della reale consistenza degli archivi non statali, fu realizzato in quegli anni un altro esperimento, questa volta interno agli Archivi di Stato, il cui ricordo, fra l'altro, serve ad aggiungere un esempio concreto a quanto ho poc'anzi detto a proposito della "solitudine" di molti archivisti. Tre dei quattro Archivi marchigiani disponevano allora di un solo funzionario ciascuno, il direttore, ed ognuno era pertanto costretto a lavorare in totale isolamento. Su questo mini-ambiente venne a calarsi una lodevole iniziativa ministeriale, quella cioè di riunire periodicamente ed a turno nei vari capoluoghi tutti i funzionari della regione, incaricati per un congruo periodo di tempo di occuparsi esclusivamente di lavori archivistici. L'intera operazione era finanziata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche. Ci ritrovammo così a lavorare tutti insieme per  non brevi periodi, nell'uno o nell'altro dei capoluoghi di provincia. L'età, l'esperienza, il livello culturale erano pressoché gli stessi in ognuno di noi, che, nonostante le diversità di carattere, trovammo subito il modo di lavorare insieme con grande armonia. Ne nacque, fra l'altro, un'amicizia personale che dura tuttora, dopo circa quarant'anni, un'amicizia allora cementata, ritengo, dalla soddisfazione di veder superato, almeno per alcuni periodi dell'anno, il male della solitudine, appannaggio di molti archivisti di quei tempi. Avevamo, ad esempio, la inusitata possibilità di scambiare delle idee fra colleghi, di parlare dei nostri lavori, di dare e ricevere consigli: chi non ha provato a lavorare in un Archivio "minore" non può comprendere a fondo l'enorme valore umano e formativo di tali scambi. Prendemmo estremamente sul serio l'iniziativa ministeriale e lavorammo con impegno nei quattro Archivi, tutti di formazione relativamente recente e tutti bisognosi di una radicale revisione degli ordinamenti. I risultati furono notevoli, in qualche caso l'Archivio mutò addirittura la sua intera fisionomia, imparammo a conoscere veramente i nostri Istituti.

Il panorama archivistico regionale, nella sua completezza, era ormai sotto i nostri occhi; moltissimo restava da fare, ma le basi erano poste. Ricordarlo è utile ed  appagante.

Un'altra disposizione della legge del 1963 attirò l'attenzione mia e quella di molti altri archivisti: l'istituzione delle commissioni permanenti di sorveglianza sugli archivi degli uffici statali, che hanno, come è noto, anche il compito di preparare i versamenti negli Archivi di Stato, di formare gli elenchi di scarto ed in sede centrale di preparare i massimari per una razionale eliminazione dei documenti superflui. Il sistema adottato dal legislatore del 1963 mi sembrò allora, e lo era effettivamente, un notevolissimo progresso rispetto alle disposizioni della legge del 1939[2], nonché uno dei migliori possibili, in quel momento, per garantire l'organico esercizio di una delle funzioni più delicate svolte dagli Archivi di Stato. Le nuove norme ci consentivano di seguire l'archivio fin dal suo nascere e di curarne tutte le operazioni necessarie fino al versamento negli Archivi di Stato. Si trattava, in effetti, di una vera e propria forma di gestione del prodotto documentario dello Stato, che, fra l'altro, portava in primo piano l'attenzione sugli archivi contemporanei, fino ad allora spesso considerati, senza alcun fondamento scientifico, di importanza secondaria. Nei miei primi anni di servizio avevo esercitato questa funzione secondo le norme del 1939, con saltuarie presenze presso i vari uffici produttori e soprattutto con scarsa convinzione. Con il decreto del 1963 la funzione fu chiaramente delineata, il suo esercizio reso permanente, la sua organizzazione, almeno in via teorica, resa più produttiva. La mia soddisfazione per tutto ciò si è mantenuta molto a lungo, ma è andata fatalmente attenuandosi di fronte al perdurare, nonostante tutto, di buona parte delle vecchie carenze: scarsa e saltuaria frequenza delle sedute delle commissioni, mancanza di adeguate disponibilità economiche, di spazio negli Archivi di Stato per accogliere i versamenti (l'idea di locali di deposito intermedi e di centri di raccolta diversi dagli Archivi di Stato è stata, a quanto ne so, recentemente ripresa; studiarne la realizzazione dovrebbe essere molto allettante), indifferenza da parte dei produttori di documenti, scarsezza di personale, soprattutto la quasi totale assenza degli auspicati massimari. A parte ogni altra considerazione, il problema ha ora assunto un rilievo ancor più marcato con l'adozione di un buon numero di provvedimenti legislativi - ultimi i decreti legislativi  n.281 e 282 del 30 luglio 1999 - sulla tutela della cosiddetta "privacy". Tutte tali norme, che dimenticano puntualmente di tener conto e spesso persino di citare la legge archivistica del 1963, interferiscono profondamente sul regime e sul trattamento della documentazione e rendono l'esercizio della sorveglianza da parte degli Archivi di Stato sempre più aleatorio. Io non dispongo di ricette particolari atte a risolvere questo antico e sempre vivo problema, ma sono sempre maggiormente portato a condividere l'idea, oggi vista con particolare favore, di una diretta e continua collaborazione fra archivisti di Stato e pubblici uffici, con un eventuale distacco permanente di personale specializzato. Si pensa cioè all'organizzazione di un vero e proprio servizio di management archivistico supportato dagli attuali strumenti tecnologici, secondo la strada già imboccata da diverse amministrazioni estere. 

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[1] Lucio Lume, Archivi privati e di enti pubblici, in Quaderni storici delle Marche, Ancona, 1967.

[2] Legge 22 dicembre 1939, n.2006.